Così Chiarini, il 2 maggio 1879, partiva per lo Scioa, lasciando il compagno in ostaggio; ma non gli venne fatto di uscire da quelle chiuse. Sicchè tornato a Cialla, pochi giorni dopo che il padre Leon gli morì tra le braccia, venne ancor egli, nel fior dell’età, a miserrima morte, lasciando il Cecchi solo, esausto di mezzi e di forze, senza un conforto, in forse della vita. Pure, come aveva fatto sino agli ultimi il suo compagno sventuratissimo, anche Cecchi studiava, osservava, notava, provvedeva a lasciare lunghesso la via dolorosa alcuni capisaldi per le imprese future.
Per più mesi ancora A. Cecchi non potè uscire dal Ghera. Tutti temevano la regina, nessuno obbediva ai pretesi ordini dell’imperatore. Respinto dal Gomma, respinto dal Guma, condannato a morte, e poi costretto a farsi, per quella selvaggia coronata, pittore, falegname, armaiuolo e duce d’eserciti, dovette credersi tratto da morte a vita quando pervennero alla fine le ingiunzioni di Giovanni Kassa, e l’inviato di Ras Adal. Mutò allora, quell’astuta, consigli e maniere, volle il nostro eroe compagno in cerimonie sacre e famigliari, e ne assicurò con vigili cure la partenza appena gli venne fatto di reggersi in piedi. Così traversò, sicuro ormai fra tante minaccie, i regni di Gomma e di Limmu, poi tagliò di traverso il Lagamarà ed il Gudrù, e il 10 settembre 1880 pervenne alle rive dell’Abai (Nilo azzurro) gonfio per le pioggie. Non potè pensare a valicarlo in alcun modo; ma sull’altra riva vide Gustavo Bianchi, come a dire il saluto dell’Italia, degli amici, della famiglia, che ne aveva pianto la morte, e se non era un intimo presagio che mai non falla, gli avrebbe celebrati onori funebri.
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