) e formano il carico di un mulo. Lo portano gli stessi produttori degl’Ittù, ovvero i mercanti dei dintorni, che ne vanno a fare acquisto, scambiandolo con cotonate, conterie di diverso colore, filo d’ottone, rame, stagno, sale trito e chiuso in ancabò (sacche di fibre vegetali) e talleri. Sono questi gli accaparratori delle rivendite in Harar. Durante i quattro mesi suaccennati, si calcola che ogni giorno entrino in Harar, in media, 1000 chilogr. di caffè; quantità, che potrebbe essere raddoppiata, se gl’Ittù non ne mandassero una parte nello Scioa per trarne in cambio altre mercanzie. Ogni frasle oggi non costa meno di cinque talleri, per la concorrenza che si fanno le case europee. Pressochè tutto il caffè che giunge ad Harar, già mondo e pulito, è destinato all’esportazione per l’Europa, mentre è relativamente insignificante il consumo che se ne può fare in paese, dove soltanto le persone agiate se ne servono preparandolo in varii modi, e la classe inferiore non usa che della scorza e delle foglie dell’arbusto, che abbrustolite e ridotte in polvere, vengono poste in infusione. I dazi, che si pagano prima della entrata in Harar e dopo sino a Zeila, sono moltissimi. Quando il mercato del caffè comincia a scemare, comincia quello delle pelli, che vengono in grande quantità da diverse parti dell’interno. L’avorio è in grande diminuzione. Oltre che per mezzo dei cammelli che provengono dal paese dei Somali, il trasporto di tutte queste merci alla costa si fa con cavalli e con asini.
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