La nostra è infatti terra che può dare molto più non produca oggidì, se il senno dei suoi legislatori e il lavoro assiduo dei suoi abitanti rispondessero pienamente alla natura. Imperocchè, come ebbe a scrivere Cesare Correnti, niuna regione d'Europa certamente risponde meglio alla fatica umana, ma niuna forse chiede all'uomo maggior costanza di lavoro intelligente e incessante. È un mirabile congegno, che assestato e rinettato diligentemente fa miracoli; lasciato arrugginire, andrebbe a strappate faticose e pericolosi trabalzi.
Se dell'Italia antietrusca ci fosse rimasta una descrizione a modo di quella che Tacito ci lasciò della Germania antica, noi potremmo ora misurare il valore delle genti primeve, che apersero ai vigneti, agli ulivi, al frumento le cupe foreste apenniniche che inalvearono i mille torrenti peninsulari, che fondarono città agricole in mezzo ai lagumi del Po, del Tevere, dell'Ombrone. Quanto sia necessaria la vigilante providenza umana a questa terra di promissione lo possiamo argomentare da quel che diventò l'Italia servile nella decadenza dell'Impero romano e nei primi secoli del medio evo, quando le selve selvaggie, i luridi stagni, le brulle lande, le fiumane ora mareggianti per ampie valli, ora secche e ciottolose, davano alterno aspetto di tetraggine nordica e di squallore africano. Della natura italiana sarebbe acconcio simbolo lo stemma di Napoli, che è un cavallo focoso e superbo; bello e utile ad esperto cavalcatore, ma guai chi gli si recasse trascuratamente a bisdosso, o peggio chi gli si abbandonasse tra gli zoccoli.
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