Per quanto rispettosi degli antichi usi, i Cabili sono meno schiavi dell'abitudine dei contadini francesi, giacchè hanno volentieri introdotto la patata ne' loro giardini, ed ora stanno coltivando estesamente la vigna sui declivi esterni del Giurgiura; ma non sembra abbiano tratto grande profitto dal castagno, l'albero che produce la «ghianda francese»(578). Ciò che più d'ogni altra cosa distingue il Cabilo, è l'amore dell'indipendenza personale: ciascuno vuole essere «il padrone assoluto della sua testa»(579); ciascuno parla del proprio onore, e fa sempre capolino nelle conversazioni la parola araba nif, che propriamente vuol significare «naso», simbolo della dignità personale e della suscettibilità. Grave oltraggio all'onore d'un Cabilo è «tagliargli il naso»(580). Ma l'amor proprio del Cabilo non è posto nell'eleganza del vestire; tranne quelli che vivono coi Francesi e comprendono i vantaggi igienici della pulizia, tutti gli abitanti del Giurgiura indossano stracci, giacchè tengono in dosso la gandura finchè cade a pezzi, e difficilmente apparisce il primitivo colore dei loro scecia. Sporchissime, nella massima parte, sono poi le abitazioni, che condividono col mulo, co' buoi, colle capre e con le galline: «il Cabilo non pulisce la sua casa che quando il campo ha bisogno di letame»(581).
Base della famiglia cabila è ancora l'acquisto della moglie. Le ragazze sono vendute dal padre da duecento a mille lire, secondo la classe e la bellezza: «il padre mangia la figlia», dice il popolo, quando il padre spende la somma ricevuta in dote.
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