La lotta difficile della vita li ha resi aspri, avidi e sospettosi; hanno generalmente aspetto duro e sguardi crudeli: «Ciascuno per sè», sembra dire il Tibbu. Raramente lo si vede ridere o scherzare co' compagni; le feste del Tibesti non sono gaie riunioni di canti e di danze, come quelle de' negri; ma servono di pretesto ad improvvisazioni e a gare di parole. Il Tibbu diffida sempre ed anche quando si imbatte nel deserto in un compatriota si guarda bene di andargli incontro. Vistisi i due si arrestano improvviso, si accoccolano, tirano il lizam sul volto per velarsi al modo dei Tuareg, tengono la lancia con la mano destra ed il changermangor o fionda con la sinistra, indi si chiedono reciprocamente della salute, della origine e ad ogni risposta emettono grida di ringraziamento ad Allah. La cerimonia dei saluti dura parecchi minuti, durante i quali i due Tibbu hanno comodo di osservarsi e di riflettere sul modo da tenere verso lo straniero.
In quanto ai costumi, i Tibbu si avvicinano ai differenti popoli Nigrizi, Arabi, Tuareg con cui sono confinanti. Essi, come gli Scilluk del Nilo, si fanno col coltello alcune cicatrici sulle tempia e portano, come i Tuareg, il velo, reso necessario dall'atmosfera polverosa ed arida del deserto; aggiungi poi che avendo essi preso dagli Arabi la religione presero pure da loro parecchi costumi. Per origine però essi sono assai probabilmente congiunti co' Nigrizi propriamente detti, sono cioè fratelli dei Daza che stanno a sud, nel Borku e ne' paesi vicini al lago Tzade.
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