Io rimasi coi Susini, e lungo le rive della Dora, a capo d'un ponte, vidi il sole tramontare dietro i gioghi del Cenisio; e mentre la campana d'una vicina chiesetta sonava l'Avemaria, la mia mente saliva fantasticando alle antiche generazioni di Susa, fra lagrime e rovine.
Le tenebre della notte mi parevano rotte dalle furie, che agitando le fiaccole infernali per le balze del Cenisio e del Roccamelone illuminavano scene di sterminio e di orrore. Io vedeva giù dalle Alpi calare Annibale, che sfiorava il giardino d'Italia col giuramento d'un odio ostinato, e le sue orde, che se risparmiavano Segusio, non la perdonavano ai Taurini. Non così Fabio Valente, che con quarantamila uomini piomba sovra Susa, abbandonandola al ferro ed alle fiamme. Invano la prostrata città risorge rivestita di nuova gloria; imperocchè Costantino, sdegnato che ella parteggiasse per Massenzio, avventa fuoco alle porte, accosta scale ai torrioni, la percuote, l'arde, e lascia un miserando ammasso di rovine ai Segusini, che non facilmente col resto della cristianità consentiranno al vincitore il titolo di pio e di santo. Costanti nelle avversità, i superstiti riedificano la patria, non sapendo gl'infelici d'apparecchiare nuove vittime ai Goti, ai Franchi ed agli Alemanni, che non piegano a pietà.
Oh! vista atroce! All'urto delle macchine belliche scrollano le torri e le mura: sorgono improvviso, fra 'l cozzo delle armi, fiamme voraci, e come lave d'indomito vulcano, coprono l'intera città: le acque della Dora, chiare per solito e luccicanti come argento, vanno tinte e fumanti di sangue: e fra tanto orrore levasi gigante e con barbara gioia un terribile uomo, che nella smodata ambizione potè credersi signore del mondo.
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La Dora
Canti e prose
di Giuseppe Regaldi
Tipogr. Sebastiano Franco Torino 1864
pagine 263 |
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