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      Era inutile ricordare che il Regno d'Italia appiè dell'Alpi fu fondato dai marchesi di Ivrea, il cui sangue scorre nelle vene del Monarca, che potè adempiere il voto di tanti secoli e di tanti martiri; e che pieno di pericoli era divellere il seggio della monarchia dal granito alpigiano, in cui antico è l'omaggio ai Reali di Savoia.
      Si compia l'opera dell'unità italiana dove si è con tanto senno preparata e condotta a buon segno. Con le contese ed i gravi dispendi del trasferimento non si turbi, nè s'indebolisca lo Stato già fiacco per le miserie del pubblico erario. Non s'incorra negli errori dell'Impero latino, che decadde dalla pristina grandezza, spostando il seggio dal Tebro al Bosforo, sicchè, non cessando i travagli del trasferimento, l'Italia imperiale fu
     
      «...simigliante a quella infermaChe non può trovar posa in su le piume,
      Ma con dar volta suo dolore scherma»58.
     
      Fortifichiamoci rinvigorendo il trono sabaudo, principio di nostra salute, nella valle del Po, in cui più volte colle armi si decisero le nostre sorti, se pur non vogliasi un'Italia senza il Piemonte, com'era ai tempi delle battaglie di Annibale sul Trasimeno e a Canne, accennate nella militare concione dell'oratore e generale Cialdini, e come, forse opportunamente ai suoi fini, la descrive Napoleone III narrando la vita di Giulio Cesare.
      Non gradivano tali ragioni, nè poi gli argomenti de' senatori Sclopis, Ricotti, Cadorna e Revel, e dei deputati Berti, Crispi, Chiaves e Coppino, e di altri uomini assennati.
      Il Ministero Minghetti-Peruzzi, valendosi del Pepoli a messaggio ed interprete, nel silenzio diplomatico ordì colla Francia la Convenzione del 15 settembre, che traeva seco il trasferimento della metropoli a Firenze.


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La Dora
Canti e prose
di Giuseppe Regaldi
Tipogr. Sebastiano Franco Torino
1864 pagine 263

   





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