Intanto che que’ Saggi bilanciavano così li diversi pareri, giunse al Doge quella celebre lettera di Gregorio III, lettera che conservasi tuttavia come un autentico documento della Veneta indipendenza, e come una prova convincente di quanto quel sagace Pontefice, deponendo ogni suo particolare risentimento per il pazzo furore di Leone, detestava i Longobardi, nemici per sistema della Chiesa Romana, e di ogni umanità. Con essa implorò egli istantemente l’ajuto de’ Veneti per ricuperare Ravenna.
Il Doge Ippato, che vivamente bramava la guerra, sperando di segnalarvisi, e che a tal oggetto fatto aveva educare la gioventù negli esercizi militari, insorse a dimostrare, che le istanze del capo della Chiesa, ed il pericolo della perdita della Veneta indipendenza troncar doveano ogni irresoluzione. Aggiunse… Ma che cosa faceva uopo aggiungere? Coscienza, amor patrio, religione, e libertà non furono in tutti i tempi i mezzi potentissimi e sicurissimi dei politici, e dei più scaltri per suscitare tutte le passioni, e spignere gli uomini ad ogni impresa? Non altro dunque rimase a fare, che concertar le forme dell’attacco. I Veneti con ottanta legni comandati dal Doge stesso anderebbero ad assaltare la piazza, mentre l’Esarca colle sue milizie la stringerebbe per terra. Si convenne inoltre del giorno e del segnale. L’Esarca pieno l’animo della più confortante fiducia, prese commiato, e andò tosto a raccogliere le poche truppe, di cui egli potea disporre. L’Assemblea pure si sciolse, e tutta la Veneta gioventù corse spontanea ad imbarcarsi.
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