Quanto più diletta il fermarsi sopra gl’innocenti lavori figli di un’industria utile a sè, non disutile agli altri! Conobbero ben presto i nostri isolani che una nazione non può dirsi commerciante se si limita a trafficare soltanto cogli altrui prodotti. Convivendo adunque fra gli artisti e negozianti di Costantinopoli, cioè di quella superba Città ch’era succeduta a Roma nello splendore, si invogliarono di trasportare alla patria le sue arti e i suoi lavori, sperando così di emulare Antiochia, Alessandria, Damasco, città che in grazia delle loro celebrate officine, essi vedevano non senza invidia essere cotanto floride ed opulenti. L’abitudine di scegliere e comperare tutte le cose di lusso per oggetto di guadagno, aveva di già addestrati i loro occhi a valutarne l’intrinseco pregio, e a riconoscerne tosto le forme più o meno eleganti, secondo l’uso del secolo. Inoltre il genio di imitazione, e la natural perspicacia rendevano ad essi non difficile il trasportare nelle opere proprie ciò che vedevano di più raro in quelle degli altri. Quindi è che non si tardò ad introdurre in queste lagune un buon numero di fabbriche che facevano fra loro a gara di superarsi nella perfezione de’ proprii lavori. E già sin dal 775 si videro comparire mercadanti Veneziani alla Fiera di Pavia, non solo con merci acquistate in Levante, ma con manifatture di stoffe lavorate nelle nostre isole. Oh quale orgogliosa compiacenza avran essi provato in vedere i Paladini, i Capitani di Carlomagno fastosi per la recente distruzione del regno de’ Longobardi, pagar loro un tributo strappato dall’ammirazione!
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