In ogni occasione desideravasi bensì di eccitar l’emulazione alla virtù, l’amor della patria, ma volevasi però evitare tutto ciò che suscitar potesse la gelosia, la rivalità; ed è per questo che un antico statuto o legge ordinava al Doge di regalare cinque anitre di mare a que’ patrizj che non avessero potuto trovar luogo nei banchetti; e queste servir dovevano per la loro porzione del pranzo; esse furono poi cangiate in una moneta coniata espressamente per quest’occasione, e che per ciò trasse il nome dì Osella; da una parte della quale vedevasi l’immagine di San Marco in atto di presentar lo stendardo al Doge, e dall’altra il nome del Doge regnante, e l’anno della sua Ducea. L’uno e l’altro di questi compensi ci fanno conoscere la frugalità patriarcale di questi conviti. E pure non è essa preferibile a quelle cene così sontuose dei Romani, delle quali una sola era bastante, come si dice, ad annientare affatto il patrimonio delle più opulenti patrizie famiglie? Nondimeno coll’andar del tempo si deviò anche in Venezia dalla prima semplicità, e vi s’introdusse tale magnificenza, quale però non disconvenivasi al capo d’una florida Repubblica.
Si cominciò dal destinare a quest’oggetto una superba Sala nel palazzo Dacale che portò il nome di Sala dei Banchetti. Questa nella sera precedente al giorno della Festa, illuminavasi magnificamente per lasciar godere dello spettacolo, che presentavano quelle tavole tanto ben preparate, e quelle credenze coperte di molta argenteria d’una ricchezza e d’un lavoro ammirabile.
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