Alfine si permise ad Ulrico di ritornarsene co’ suoi a casa, purchè subito giuntovi, come pure quind’innanzi ogni anno pel Giovedì Grasso, giorno anniversario della vittoria, avesse a spedire a Venezia un pingue toro e dodici porci per servire di spettacolo e di solazzo alla plebe. Ulrico tutto accordò: ma è credibile, che goffo com’era, non si accorgesse di venire rappresentato egli ed i suoi canonici, sotto sì umiliante allegoria?
Che che sia di ciò, la festa fu decretata; se ne prescrisse la celebrazione ed il metodo, e ciascun anno si rinnovò con solennità, con entusiasmo, con allegria generale. Eccone l’ordine stabilito. Ricevuti dal Patriarca gli effetti stipulati, si custodivano gelosamente nel Palazzo Ducale. Il giorno innanzi la gran festa, erigevansi nella sala, detta del Piovego, alcuni castelli di tavola, rappresentanti le fortezze dei signori Friulani. Ivi pure raccoglievasi il Magistrato del Proprio, che in forma legale pronunziava sentenza di morte contro il toro ed i porci. Il corpo de’ Fabbri essendosi altamente segnalato nella vittoria contro Ulrico, come quello de’ Casseleri nella liberazione delle Venete Spose involate dai Triestini in Olivolo, meritò il privilegio di tagliar la testa al toro. E per ciò la mattina del Giovedì Grasso, armati tutti di lance, di scimitarre ignude e di lunghissime apposite spade, si recavano al Palazzo Ducale con alla testa il loro gonfalone, e preceduti da scelta banda militare. Ad essi consegnavasi il toro ed i porci, che venivano condotti con molto apparato sulla piazza di san Marco.
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