A tale difetto suppliva però largamente la magnanimità e l’altezza dell’animo suo, come da ciò che diremo si potrà rilevare.
Verso la fine del duodecimo secolo gli affari de’ Cristiani andavano alla peggio nell’Asia. Li Turchi avean loro distrutti degli interi eserciti; Gerusalemme era presa, e Lusignano che vi comandava rimasto era prigioniere: non v’avea insegna cristiana in quasi più alcuna delle provincie della Siria. La serie di tante disgrazie riaccese più che mai in tutto l’Occidente l’antico ardore delle Crociate. A quel tempo Costantinopoli era il teatro delle più tragiche catastrofi. Il voluttuoso riposo dell’imperator Isaaco era già stato di frequente turbato da sollevazioni e da congiure secrete; poscia egli stesso caduto era nelle trame di un fratello, che dominato dall’ingorda sete di regnare, la quale conduce al delitto e all’atrocità, aveva per acquistare il precario possesso di un trono vacillante, postergati tutti li sentimenti di natura, di dovere e fedeltà. Mentre Isaaco stava trattenendosi colla caccia nelle valli della Tracia, Alessio di lui fratello si rivestì della porpora fra le acclamazioni di tutto l’esercito; e la capitale ed il clero applaudirono a questa scelta. Isaaco non seppe la sua caduta, che allora quando si vide inseguito dalle sue guardie. Fuggì solo senza risorse in Macedonia; ma nemmen colà giunse ad evitare un più sciagurato destino: perciocchè venne arrestato e condotto in Costantinopoli, dove gli furono cavati gli occhi, indi gettato in una solitaria torre, e tenuto in vita a solo pane ed acqua per suo maggiore tormento.
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