Allora il Doge escì co’ suoi Consiglieri, perorò ai malcontenti, rinfacciò loro, benchè con dolcezza, l’indecenza e l’irregolarità della loro condotta, e gli esortò alla tranquillità, all’obbedienza. Nulla potè calmarli, e fu quasi un prodigio s’essi non segnarono collo spargimento del sangue i primi movimenti dei loro temerarj trasporti. Si contentarono di arrestare il Doge ed i suoi Consiglieri, racchiudendoli in una prigione. Poscia si scelsero un capo che chiamavasi Marco Gradenigo. Siccome molto ad essi importava l’avere i Greci dal loro partito, per renderseli favorevoli abolirono il rito latino in tutte le chiese. Sostituirono lo stendardo di san Tito a quello di san Marco; apersero le prigioni; misero i delinquenti in libertà, a condizione però che si ponessero nelle loro truppe, e che servissero gratuitamente per sei mesi.
Appena l’infausta notizia pervenne a Venezia, che vi destò la massima costernazione, inspirata dal timore di perdere un’isola sì utile e sì cara. Un altro sentimento vi si aggiunse ancora. Molti cittadini erano costretti ad affliggersi per la perdita di alcuni parenti o amici, che conveniva sacrificare alla patria. Il Senato tenne a quest’oggetto alcune assemblee straordinarie, e l’opinione che prevalse fu di ascoltare anche in questa circostanza la voce della moderazione sì naturale ai Veneziani. Venne spedita una commissione per procurare di richiamare con dolcezza i Coloni alla ragione; ma nulla valse a piegarli. Si volle fare un altro tentativo, spedendo da Venezia una nuova deputazione; ma infine vedendo vani tutti i mezzi della persuasione, si ricorse alla via dell’armi.
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