Io stesso colà invitato (e questa è frequente degnazione del Doge) fui posto a sedere alla sua destra. Ma tuttavia pago dello spettacolo di due giorni, per gli altri mi scusai, adducendo l’ordinarie mie occupazioni a tutti già note. In piazzanon v’avea più nulla di vacuo, talchè, come suol dirsi, non vi sarebbe un grano di miglio caduto. La gran piazza, la chiesa stessa, le torri, i tetti, i portici, le finestre, tutto era non dico pieno, ma zeppo, murato di gente. L’inesprimibile ed innumerabile moltitudine di persone copriva la superficie del suolo, e sotto gli occhi spiegavasi la colta e popolosa fecondità di una città fiorentissima; il che raddoppiava l’allegria della Festa: nè v’avea per la plebe in mezzo a tanta giocondità cosa più gioconda, quanto il vedere e ammirar sè medesima. Alla parte destra in forma di gran palco stava eretto un solajo là sul fatto a bella posta formato di travi, su cui quattrocento matrone onestissime scelte dal fiore della nobiltà, ed insigni per avvenenza e per abbigliamenti, in fra i continui conviti ch’eran loro offerti, porgevano sul mezzodì, la mattina, e la sera l’immagine d’un celeste congresso. Alla festa inoltre intervennero (cosa che tacere per nulla si deve) alcuni nobilissimi uomini usciti a caso dalle contrade Britanniche, compagni e consanguinei del re, i quali anch’essi esultanti per la recente vittoria, erano qua venuti con viaggio marittimo usando essi coll’esercizio sul mare assai rinfrancarsi. Fu questo il compimento ch’ebbe questa corsa equestre di molti giorni, il cui premio fu soltanto l’onore, e ciò con tal giustizia impartito, che a buon dritto chiamare si poterono vincitori tutti, vinto nessuno.
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Doge Festa Britanniche
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