Bernaccio fatto ardito dall’accoglienza del Doge, ed insieme sitibondo di pronta vendetta, macchinò di cancellare sul fatto il torto ricevuto colla morte del gentiluomo. Ma il disegno non fu tanto secreto, che il Barbaro non ne venisse avvertito; quindi si guardò bene dall’uscir della sua casa; scrisse bensì al Doge rappresentandogli la necessità di reprimere un attentato sì orrendo e di esempio sì pernicioso. Non poteva il Doge senza palesar sè stesso dar passata a simil disordine. Citò Bernaccio Isarello a presentarsi dinanzi al collegio, ed ivi in faccia a tutti dimostrò estremo rigore col colpevole; aspramente il rimbrottò, ed aggiunse che, avendo motivi di lagno con qualcuno, egli dovea procedere per le ordinarie vie della giustizia, che stanno aperte a tutti; per ultimo gli comandò di doversi astenere da ogni specie di violenza, che in una Repubblica libera come Venezia insopportabile rendevasi. Il reo dovette di necessità promettere obbedienza, ma ben lesse il Doge che tal promessa era forzata, e che dentro sè provava un vivo rancore. Per ciò col favor della seguente notte chiamò alle sue stanze l’ammiraglio, ed ivi senza alcun testimonio cominciò a discolparsi seco lui della sua apparente severità. Indi lo trasse a discorrere sul divisato disegno. Isarello spiegò tutta la sua facondia, onde far aggradire la già ordita trama. Questa era di scegliere diciassette Capi, i quali si dovessero portare in diversi luoghi della città, e che ognuno di essi avesse sotto di sè una compagnia di quaranta uomini, che ignorassero sino al momento dell’esecuzione ciò che dovrebbero fare.
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