Tentò Costantino coll’esortazioni di persuaderlo a fermarvisi; pregò, offerì, scongiurò, ma indarno; il Genovese fuggì dalla piazza, ma non dalla morte, che lo raggiunse ben presto. Rimasi i soldati senza capo, rimasero pur anche senza più ardire di nulla intraprendere. I Turchi approfittano di quest’inazione, e si arrampicano a migliaja sulle mura per entrar in città. Che far può l’infelice Paleologo se ogni speranza è perduta? L’elevatezza però del suo animo non l’abbandona. Abborre più che morte l’idea di vedersi prigioniere, di vedere un vincitore superbo fatto arbitro del suo destino. Ei non vuole sopravvivere alle ruine del suo trono, della sua imperial dignità: «ch’uomo diredato del regno, se vive un’ora, non val più nulla.» Ei deve e vuol morire. Ordina ai suoi soldati d’ucciderlo; ma per la prima volta li trova tutti restii a’ di lui comandi; ed egli deposte le insegne imperiali, precipita colla spada alla mano nel più folto delle schiere nemiche, fa sforzi di valore sovrumano; il suo formidabile braccio arresta per qualche istante ancora quel celebre impero, ch’è già sull’orlo del precipizio, e trova alfine quella morte che desiderava, manifestando nel punto stesso potervi essere una vinta grandezza di gran lunga superiore alla vittoria vincitrice. La sua caduta trascina seco quella pure della più bella città dell’Universo, di quell’antico impero, che fondato da un illustre Costantino, cessò di esistere sotto un altro Costantino, ben degno di regnarvi invece per le sue virtù e talenti.
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