Degl’Italiani n’erano rimasti soli seicento, e questi pure stanchi, ed esausti dalle fatiche e dalla fame: gli Albanesi ed i Greci più agguerriti erano per la maggior parte morti combattendo: ormai non restava più nulla a sperare di esterni ajuti. Per queste estreme angustie Matteo Golfi di Cipro con altri suoi compagni si recarono dai comandanti Veneti, rappresentando loro che il popolo di Famagosta non aveva altro ad offrire in sacrificio, se non l’ultimo eccidio di sè stessi e della città. Che se avessero ancor vigore i corpi, non lascierebbero di esporli tuttavia come in passato; ma che non avendo il male altro rimedio, si volesse liberare dall’imminente desolazione la patria fedele, col riserbare il misero avanzo di cittadini, le mogli, i figliuoli da una prossima morte o dall’irreparabile schiavitù. Con lagrime e singulti scongiurarono di venire ad un accordo co’ Turchi, adducendo gli esempi di Rodi ed altre città, alle quali i nemici avevano serbata la fede promessa. Si mossero a pietà que’ Comandanti, considerando inoltre che, ridotte le cose a tal punto, sarebbe piuttosto pazza e crudel ostentazione, che vero coraggio il voler sostenere per anco una piazza, dove altro più non rimaneva, che un pugno di soldati inabili, e ch’era molto meglio salvare il rimasuglio di questi valorosi, ch’esporli all’ultima sciagura. Fu dunque inalberato il vessillo bianco, e si venne ad una capitolazione. Fu convenuto che la guarnigione uscirebbe con armi, bagagli e cinque pezzi di cannoni; ch’essa sarebbe trasportata in Candia sopra i vascelli Turchi; che gli abitanti sarebbero in libertà di abbandonare l’isola di Famagosta per andare dove più lor piacesse, recando seco quanto ad essi apparteneva; e quelli che preferissero di trattenervisi, sarebbero esenti dal saccheggio e dalla schiavitù.
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