Tale si fu la moltitudine accorsa in torno al pubblico palazzo, che il Doge e la Signoria, dopo di aver udito il ragguaglio del prospero avvenimento, nello scendere alla gran Piazza, durò fatica a poter passare per mezzo la calca, ed entrare in chiesa, onde cantarvi il Te Deum.
Vennero poscia ordinati colla maggior prontezza i funerali a que’, che rimasti vittime della morte, non ebbero il dolce conforto di ritornar in patria a cogliere il premio del loro valore. Si volle che solenni fossero acciocchè il termine della loro vita corrispondesse alle splendide geste da loro operate, ed alla grande rimembranza, che di se avevano lasciato. L’onore e la riconoscenza regolarono gli apparati, e la pompa nella chiesa di S. Marco. Non simboli funebri, non catafalchi o cipressi, ma trofei, ma spoglie nemiche, ma festoni di lauro e di mirto. Una numerosa orchestra, rinforzata dalle rimbombanti bande militari, accompagnò il canto degli inni e del Santo Sacrificio. Abbagliante fu l’illuminazione, giacchè non avevasi già a richiamar alla mente l’oscurità de’ sepolcri, ma lo splendore vivissimo della gloria. Anzi per allontanare ogni idea men che lieta, qual suolsi nelle consuete pompe mortuali, venne scelto per recitar l’orazione funebre non già un ecclesiastico, ma un secolare, un nostro insigne senatore, Paolo Paruta, onde nel lodare colla sua maschia eloquenza i cittadini morti in battaglia, non obbliasse gli elogi del popolo, e con tal mezzo nodrisse in lui quelle faville di virtù, che sono naturalmente riposte nel cuor degli uomini, a risvegliar le quali niente più vale, quanto la pubblica lode.
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