Ad ogni angolo di ciascuna camera eravi una grande stufa d’argento, che là dentro cambiava in primavera il rigidissimo inverno. V’ebbe ballo, cena, e di nuovo ballo; infine il Re medesimo dimenticò e neve e vento per fermarsi a notte assai avanzata.
Giunto il giovedì grasso, il Re bramò di assistere alle feste popolari che in quel dì celebravansi. A tale oggetto in una delle sale del palazzo ducale gli si apprestò un gabinetto chiuso da invetriate, riguardante sulla picciola piazza di san Marco. Non ignorava già egli che l’origine di questa festa era stata uno de’ primi trionfi de’ Veneziani, e che il toro e i dodici porci che anticamente si decollavano, era un’umiliante allegoria del Patriarca di Aquileja e de’ suoi Canonici fatti prigionieri.6 Federico che esaminava le cose anche come osservator politico, riconobbe in tutte queste feste la profonda politica de’ Veneziani; e la sera al teatro, girando per i palchetti, non cessava di parlar del piacere che vi avea provato, ed aggiungeva alcune considerazioni atte a soddisfar assai i buoni Veneziani.
L’ultima domenica di carnovale era il giorno solitamente destinato per la caccia de’ tori; ma perchè S. M. era solita nella sera di domenica di dare in sua casa un trattenimento, fu data la caccia nel precedente sabbato; e invece che nel cortile del palazzo pubblico conforme l’uso, venne apprestata nella gran piazza, affinchè prendesse un’aria di maggior grandezza. Anche questo era uno de’ più cari spettacoli del popolo Veneto, godendo di farsi giudice di questa specie di battaglia, e di decidere del valor de’ cani nell’attaccare, e di quello de’ tori nel difendersi.
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