Andronico risolse di rimbarcarsi co’ suoi soldati per non essere esposto nella notte ai dardi del nemico. Frattanto il Zen colloca nelle case del borgo la maggior parte della sua truppa, con ordine di non uscire se non ad un segnale convenuto. Il giorno dopo Andronico discende di nuovo a terra, sforzasi di vincere le trincee del borgo, e vi riesce. Zen nell’avanzarsi delle guardie, si ritira precipitosamente nell’interno del borgo. Allora e Greci e Genovesi, ingannati da questa fìnta timidezza del Zen lo insieguono senza nulla sospettare, guadagnano sempre più terreno sin a tanto che, dato finalmente il segnale, tutti i soldati Veneti si slanciano fuori delle case, si precipitano sul nemico, ch’è da ogni parte preso, e di cui viene fatta un’orrida carnificina. Quelli che poterono salvarsi andarono a raggiungere i loro compagni d’armi, ch’erano tuttavia nelle galere, ed il giorno appresso tutti insieme vennero ad attaccare i Veneziani, la cui forza non era neppur la metà di quella della parte avversaria. Carlo, tuttochè ferito in una coscia, giunge al campo, anima i soldati, dà gli ordini con una presenza di spirito mirabile, e combatte egli stesso colla maggior fermezza. Nell’ardore della mischia riceve due ferite, una nella mano, l’altra nel ginocchio; ma non per questo abbandona il suo posto, nè cessa d’invocare i suoi sino a che lo spargimento del sangue il fa cader a terra svenuto. I soldati, furibondi al vederlo in tale stato, si gettano come leoni su i battaglioni nemici, tagliano a pezzi gli uni, inseguono gli altri, e gli sforzano d’imbarcarsi in gran disordine.
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