I Genovesi vi perdono il loro generale e gran numero de’ suoi; nondimeno riportano una vittoria, che li rende padroni di quindici galee con tutti gli equipaggi; queste vengono trasportate a Zara; ventiquattro nobili patrizj fatti prigionieri sono spediti a Genova; le ciurme e le milizie veneziane vengono forzate a servire sotto gli ordini de’ vincitori.
Il Pisani, a cui nulla più rimaneva a sperare, si svincola dal nemico, e colle ultime reliquie si sforza di rientrare in Parenzo. Ma qual orrore nello scontrare, via facendo, qua frantumi di galee, là cadaveri natanti, e in vedere per vastissimo spazio le acque tinte del sangue de’ suoi! Afferrato il porto, gli convenne spedire a Venezia la nuova di questa fatalissima disfatta.
Non è da dirsi qual fosse la desolazione e il lutto della città per tanto pubblico e privato danno. Non solo invitavano al pianto le tante navi, il tanto oro, le tante vettovaglie perdute, le facoltà di parecchie famiglie nobili e popolari consunte; ma ciò ch’era pegio, la mancanza di tanti cittadini, che lasciavano le loro case quale orba del padre, quale del figlio, quale del marito, del fratello, o di uno stretto congiunto. A tanto dolore univasi pur anche la considerazione del pericolo della città stessa, esposta al vittorioso ed insolente nemico, senza aver pronta un’armata, od un alleato che ne assumesse la difesa. All’afflizione successe il sospetto, che tanta sciagura non fosse avvenuta senza colpa del comandante; e tale sospetto valse a suscitare tutte le antiche animosità. Nel Doge, benchè parente, si rinnovarono alla memoria i modi acerbi, e le minaccie usate per indurlo ad accettare il principato, che fermamente ricusato avea; in Pietro Cornaro Procuratore un insulto dal Pisani ricevuto in pien Senato; in Taddeo Giustiniani di lui emulo l’essere stato sempre posposto nelle ambite dignità; in quasi tutti i cittadini si destò l’invidia della sua gloria.
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