La speranza di ottenere un sì bel privilegio, in aggiunta al patrio amore, fece fare sforzi prodigiosi a danno del nemico che osava assai spesso uscir baldanzoso dal Forte di Brondolo. Si raddoppiò grandemente il coraggio allorchè la tanto sospirata flotta di Carlo Zen giunse in porto, recando seco buon numero di navigli carichi di prigionieri e di ricche spoglie nemiche di somme rilevanti di danaro, e di abbondantissime provvisioni di viveri. Con quest’aumento di forze, sotto gli ordini di un guerriero sì illustre, Vittor Pisani non può più moderare la sua ardente brama di accettar la disfida del nemico, che non cessava d’istigarlo e vilipenderlo per tal ritardo. Ne chiede egli la permissione al Doge, ed ottenutala, esce pieno d’animo e di esultazione dal porto, allarga le sue venticinque galee e le distende in vasto giro. A tal comparsa il comandante nemico, che non era più il Doria, nè alcuno di que’ tanti volorosi i quali periti erano negli ultimi fatti, ma un certo Matteo Maruffo, orgoglioso ed insolente, fa suonar le trombe, raccogliere i navigli, e si accinge a sostenere arditamente l’attacco. Stavansi spettatori sì gli assedianti, che gli assediati; i primi dai legni dell’armata di Lova; i secondi dai tetti delle abitazioni di Chioggia, mandando tutti gradissime grida per dar coraggio alla sua parte, quando con universale sorpresa si vide tutto ad un tratto il Maruffo levarsi e prender la fuga. Il Pisani lo insiegue, ed il rimanente della flotta se ne rimane ferma alla bocca del porto di Chioggia, tuttochè di continuo tormentata da’ colpi delle bombarde, che dalla piazza vanno a ferire lo stendardo della stessa galera del Doge.
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