Subito dopo fu presa la fortezza d’Argos. Indi si raddoppiarono le offese contro Napoli, gettandovisi almeno 500 bombe al giorno, oltre il continuo tormento di dodici cannoni da 50. Ad onta di tutto questo, la fermezza degli assediati era mirabile; ma più la conquista appariva difficile, più cresceva l’ardore negli assedianti; nè mai cessava il fuoco dell’artiglieria. Se non che nel punto che la piazza stava per cedere, ecco scender dal monte Palamida il già profugo Seraschiere, e con dieci mila uomini schierarsi in buonissimo ordine di battaglia. Urli disperati precedettero l’attacco; ma i Veneti, avvezzi a quelle barbare grida, non si atterriscono, ed animati dal loro prode condottiere fanno prodigj di valore. Il combattimento fu più dell’altro terribile. Per tre ore continue durò la carnificina, resa ancor più crudele dall’arma bianca. Finalmente i Turchi furono costretti a ritirarsi, lasciando sul cammino e morti e agonizzanti. A grande stento appena mille poterono essere curati delle ferite. Tutti gli storici si accordano nel dire, che dalla parte dei Veneti tra morti e feriti non giunsero al numero di 350.
Riunita tutta la truppa, il general comandante la ricondusse a rinnovare gli attacchi di Napoli di Romanìa, e strinse ognora più quella piazza, flagellandola con cannoni, con bombe, con sassi. E per ispaventare ancora più gli abitanti, adottò il barbaro uso de’ Turchi, di mostrar quantità di teste de’ loro nazionali, piantate sopra lunghe lancie, quasi indizio di ciò che aspettar si dovevano essi pure, se presto non cedessero quella piazza.
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