In questo modo s'insinuò fra di noi il germe del malcontento cronico. Si formò l'abito di censurare sistematicamente il governo (come se il «governo» nei paesi liberi non fosse espressione dei governati), di agitare dinanzi ad esso modelli fantastici, di vilipenderlo perché incapace di regalarci, un anno sí e un anno no, una nuova provincia o, mettiamo, una ricca colonia. Gli istituti liberali, che sapevano ancor di vernice, parvero anch'essi ben presto decrepiti, scambiandosi gli scricchiolii dell'assestamento per quelli del fracidume; sí che, scomparsa la prima generazione che ricordava nel vivo i danni e le malefatte dell'assolutismo e che pur blaterando contro il cattivo rendimento del regime nuovo, lo avrebbe poi difeso contro ogni seria minaccia, qual meraviglia che nelle generazioni successive, eredi fortunatissime di beni tanto cospicui, crescesse a dismisura il numero degli scontenti? E che questi rinforzassero giornalmente la dose nell'aspro giudizio contro l'ignavia dei governi e il danno del regime libero, e attendessero messianicamente il ritorno alla brillante tradizione della magia politica, a quel beato tempo, cioè, nel quale bastava scuotere appena appena le fronde per riempirsi le tasche di ghiande cadute? Ma se in un caso, raro nella storia, quelle ghiande eran cadute d'oro, nel séguito, ahimè, non furon che ghiande.
Fecondo d'incommensurabili beni, il nostro Risorgimento politico, svoltosi per modi e per vie e con un ritmo che Pisacane deprecò sempre, ha dunque messo in circolazione anche dei virulenti bacilli di lenta incubazione, ma d'inesorabile effetto.
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Risorgimento Pisacane
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