Equilibrio anacronistico, insomma: non che da questi ceti, intorno al '30 — salvo eccezioni singole e controllate ed affrontate subito, di liberali convinti e risoluti e «italiani» — partisse un'opposizione sistematica al regime borbonico o l'aspirazione a un superamento del patriottismo regionale napoletano; ma c'erano vene spiccate di malcontento, c'era una irritazione generica, che s'attribuiva di solito all'amministrazione scorretta, alle meschinità della censura, all'austrofilismo umiliante in politica estera, a mille altri motivetti del genere. In realtà quello di cui i ceti medi soffrivano era l'indifferenza del regime borbonico per le loro iniziative, era il fatto che alla loro nuova potenza economica non corrispondesse alcuna influenza politica. La nobiltà, divisa, non aveva esistenza come classe politica; la burocrazia era, come sempre, affezionata alla greppia; l'artigianato urbano irrequieto e instabile, infido per tutti, massa di manovra. Fuori del regno, una grossa molestia, i fuorusciti politici: sparlavano del regime, complottavano, osservavano la vita d'Europa, scrivevano molto, sembravano concludere poco; pericolosa per altro questa sprovincializzazione di una élite di oppositori!
Vien su Ferdinando, si mette al lavoro: il bilancio dei primi mesi segna un grandioso successo. Eppure non ha fatto gran che: un'amnistia politica, qualche licenziamento di alti funzionari, qualche riassunzione in ufficio di personalità compromesse del periodo francese, un ritocco intelligente al sistema tributario; ha temperato la strapotenza della censura, ha dichiarato di voler dare fiato e sviluppo ai commerci, all'industria.
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Europa Ferdinando
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