Spirito militare inesistente affatto, la disciplina di una severità massacrante, il bigottismo fatto obbligatorio: soldati e ufficiali costretti alla rigida osservanza dei precetti, a incolonnarsi nelle processioni, a regger ceri. E spesso, troppo spesso le milizie usate a reprimer disordini, in servizio di pubblica sicurezza. Deficienze, queste e altre molte (non lieve quella degli stipendi di fame agli ufficiali), proprie dell'esercito napoletano; ma poi quelle caratteristiche di tutti gli eserciti stanziali, e a Pisacane fin d'allora insopportabili: avanzamenti per anzianità, raramente per merito, soldati che adempiono al servizio con l'animo dei detenuti che scontan la pena, distacco insanabile tra esercito e popolo, e via e via.
L'esperienza, ciò nonostante, fu per Pisacane quanto mai formativa sotto altri aspetti. Era questa, infatti, la prima volta che entrava nella vita vera, che si mescolava, lui nobile ed ex paggio di Corte, al popolo; al popolo che lavora e che soffre, a quel popolo di cui negli androni della Nunziatella si doveva sapere ben poco!
Dal porto sicuro era lo sbocco nella infinita distesa del mare.
Pisacane si presentava allora come un giovanotto robusto, di non grande statura, rotto alle fatiche, curioso del mondo, vivacissimo, dinamico e attraente. Che fosse biondo e dagli occhi azzurri, si sa anche troppo, per testimonianza della sentimentale Spigolatrice di Sapri. Dolcissimi occhi, dice la Mario, e «un non so che di mesto e di rassegnato» errante sulla «spaziosa fronte». «Era ancora imberbe — racconta il Dall'Ongaro, riferendosi a otto anni piú tardi — di una bionda e delicata bellezza.
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