.. La mia nobile, la mia generosa Enrichetta fu da me rispettata come un nume. Non religione, non tema ci spingevano a questo eroismo, ma solamente (la considerazione essere)... infame la donna che appartiene a due uomini nell'epoca istessa... Ma questo stato era troppo violento, non poteva durare: le nostre forze erano all'estremo... I nostri caratteri sono tali da non potersi piegare ad una tresca comune: allora io decisi di allontanarmi... Ma al momento di separarci i nostri cuori vacillarono. Io sarei partito deciso di cercare tutti i mezzi onde incontrare la morte — se il dolore dell'allontanamento non mi avesse spinto al suicidio — Enrichetta ne sarebbe morta al certo: allora decidemmo di partire insieme»(7).
Questa, nei suoi particolari essenziali, la romantica storia, tutta animata, nel racconto, dal palese contrasto tra la ingenua fierezza verbale del rievocatore — quanti «io decisi» e «io penso» e «io voglio»! — e la riconosciuta inesorabilità del fato, che lo ha avvinto e travolto come una povera cosa senza forza e volere.
Alla passione d'amore, infatti, è arduo comandare. Ma la essenziale attenuante da Pisacane implicitamente invocata — seppure possono dirsi attenuanti le secche motivazioni elencate in questo scritto orgoglioso, assai piú che a difesa arieggiante a requisitoria — è la inguaribile infelicità di Enrichetta, legata per la vita a un uomo tanto mite nell'apparenza quanto basso e brutale nell'intimità, a un uomo che iniziandola all'amore glien'ha insieme ispirato il disgusto e che, mediocre e incapace qual è, la tiene «come nulla».
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