Portar corona in capo, sui primi del '48, è diventata, in men che non si dica, la piú difficile e meno invidiabile delle posizioni sociali: in Italia, sentendosi mancare il terreno sotto i piedi, i Principi si buttano in gara di demagogia, fanno a chi piú concede, e a chi piú presto.
Salvo in Sicilia, dove la rivolta antinapoletana ha cause profonde e locali e perciò sentite e sofferte dalla maggioranza della popolazione urbana, in tutto il resto d'Italia (ma sí, anche a Milano e a Venezia) il Quarantotto è movimento in gran parte riflesso, obbediente a una legge fisica secondo la quale un corpo arroventato e un corpo diaccio non possono aderire senza che il contatto modifichi la rispettiva temperatura. L'Europa è il corpo arroventato, l'Italia quello tiepido se non diaccio addirittura, e in Italia (checché si dica o speri in contrario) circola il sangue d'Europa. Senza le novità francesi ed austriache il '48 avrebbe rassodato fra noi la tendenza riformistica, ma nulla piú; una rivoluzione non era davvero matura né a Napoli né a Roma né a Firenze né a Milano né a Venezia.
Il 18 marzo scoppia la rivolta antiaustriaca a Milano: improvviso rigurgito di irritazione compressa, di ricordi non mai sepolti di gloriosa autonomia, un'aspirazione generica a una libertà che ciascuno intende a suo modo. Nessuna seria preparazione (chi avrebbe preveduto la possibilità delle Cinque Giornate, due mesi prima?), ma l'abbagliante subitanea scoperta che l'Austria è uno Stato che minaccia rovina, che sotto l'orpello della sua Corte e dietro la siepe delle sue baionette c'è un popolo che aspira anch'esso a libertà; la febbre improvvisa ed effimera, insomma, che pervade la maggioranza dei ceti cittadini, dell'«ora o mai». Ora o mai, che cosa?
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