Giunto a Milano il 14 aprile, Pisacane fa capo a Cattaneo: lo crede ancora il padrone della città, mentre è ormai nient'altro che un povero Catone inascoltato o quasi, lí lí per doventare un sospetto agli occhi dei reggitori.
Nel rigurgito di tanti volontari spavaldi e ignoranti, Cattaneo apprezza subito il valore d'un Pisacane, se non altro un militare di mestiere, con idee chiare in testa. Discutono sulla situazione. Pisacane si orienta subito: Radetzki è serrato in Verona dal principio del mese, l'esercito sardo sta perdendo il suo tempo sulla riva sinistra del Mincio. Le forze, su per giú, si equilibrano: Radetzki aspetta i famosi rinforzi; i piemontesi contano un poco sulle truppe di Napoli, di Roma, di Firenze, niente sui volontari. Nuvoloni all'orizzonte parecchi: il fervore popolare s'è smorzato assai, e i milanesi riposano ormai sugli allori, pensando che la guerra vera, in campo, tocca agli eserciti stanziali. Morire d'iniziative, perciò, e dedizione passiva al monarca, e le redini strappate di mano a quanti pretendono che la Lombardia prosegua la sua guerra d'insurrezione accanto al Piemonte; diffidenze incrociantesi, degli autonomisti e repubblicani, sulle vere intenzioni di Carlo Alberto; dei piemontesi e monarchici sul pericolo di sinistra, e ovunque il riflesso dei gelosi sospetti suscitati in tutta Italia dalla mossa sabauda; e già vive e accorate le recriminazioni reciproche sulle eccezionali occasioni perdute per farla finita con l'Austria.
Data la situazione, Pisacane dichiara che vuol proseguire immediatamente pel fronte; Cattaneo si offre di accompagnarlo dal generale Lechi, che comanda in capo il cosidetto esercito lombardo.
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