Mentre conduce i suoi soldati ai fastidiosi esercizi in piazza d'armi, la sua mente corre alla politica dell'abate Gioberti, che a lui pare tortuosa e esitante; non è che un povero ufficialetto inferiore, ma smania perché alla testa dell'esercito sardo è stato messo, chi sa perché, un generale polacco celebrato per la sua nullità, e che tra l'altro balbetta a mala pena l'italiano(32); vede chiaro che a Torino, avvicinandosi la primavera, stagione di guerra, si manca di un piano deciso o peggio ancora se ne caldeggiano di rovinosi: diffida insomma di tutto e di tutti nel Piemonte monarchico, e quella tale parola che a Lugano era in bocca di tutti — tradimento — si insinua adesso, irresistibile, anche nel suo cervello. La sua, d'altronde, è un'anima in perpetuo travaglio: un senso critico fin troppo sveglio e affinato lo fa insofferente di eseguire in sottordine modesti compiti di dettaglio quando si sente o crede sentirsi tale da poter dominare l'insieme assai meglio dei suoi superiori: nato al comando, all'obbedienza negato di certo, egli ha, per concludere, la stoffa dell'oppositore per sistema e per gusto. Qual meraviglia che a reggimento egli appaia ben presto uno spostato? L'esosa vita di guarnigione lo snerva, col troppo tempo che va perduto in inezie.
Potesse almeno passare allo Stato Maggiore! Quello davvero sarebbe il suo posto, là avrebbe modo di rivelare appieno capacità fin qui misconosciute da tutti, e se non altro di rendersi conto in anticipo di come ci si prepari alla guerra in Torino.
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