Bisognava pur spiegare in qualche modo le dimissioni improvvise, e a Pisacane probabilmente seccava di confessare che, dopo appena due mesi dal suo ritorno in Piemonte, vi si era risolto un poco per offesa suscettibilità, ma assai piú per l'attrazione che aveva esercitato su lui la proclamazione della repubblica a Roma. Pure, era questo un cosí grande fatto che di per sè giustificava appieno, mi sembra, un colpo di sterzo del genere. Con la repubblica a Roma la situazione politica e militare della penisola si era infatti radicalmente mutata: l'asse della rivolta antiaustriaca si era spostato di colpo dalla pianura del Po all'Italia centrale dove, di fianco a Roma, il governo provvisorio del Guerrazzi aveva sostituito la fuggita autorità granducale. Finché la sola Venezia, con la sua resistenza, si era assunta in una Italia ritornata monarchica la difesa della causa repubblicana, il miglior modo per giovare all'indipendenza italiana era sembrato a molti, e a Pisacane tra gli altri, che fosse quello di aiutare il Piemonte a moltiplicare le sue possibilità di rivincita; ma ora, con Roma libera, pareva chiaro a costoro (e lo era stato, da piú mesi, a Mazzini) che convenisse finalmente bandire il programma di una guerra «italiana», guerra tutta di popolo, con perno sul Campidoglio, e fini piú vasti che non la mera liberazione d'Italia dal giogo dell'Austria: l'attesa campagna dell'esercito sardo si presentava ormai come un episodio parziale di un rivolgimento vastissimo. Non per questo può dirsi che il 9 febbraio improvvisasse la formazione delle opinioni repubblicane in Italia; ma solo precipitò, potenziò e rese attuali quelle che, in numero tutt'altro che esiguo, esistevan di già.
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