Il mondo, guardando a Roma, di rado sorride o trascura: osanna o maledice.
Ecco dunque perché il fatto solo della proclamazione della repubblica a Roma, indipendentemente dalla sua fortuna o dal valore poi dimostrato dai suoi governanti, costituí per l'Italia un avvenimento di eccezionale importanza e certo di ben piú vaste risonanze che non tutti insieme gli altri episodi rivoluzionari svoltisi, o ancora in via di svolgimento, entro i suoi confini, in quel decisivo biennio: cose italiane eran stati o eran questi, sia pur con ripercussioni europee; ma quella era cosa universale: saliva nel buio cielo del mondo come una colossale réclame luminosa della causa liberale italiana, che cosí s'imponeva una volta di piú, come problema interessante ben oltre le nostre o le altrui caste politiche, la stessa civiltà.
Se Roma forní alla repubblica il consueto apparato della sua grandezza, la repubblica, d'altronde, fu degna di Roma. Che importava se i suoi giorni eran contati, tra il Papa che da Gaeta, furibondo, scagliava scomuniche, il Borbone suo ospite che minacciava la guerra, l'Austria che si preparava al tradizionale intervento, la Francia, pur democratica, che non scordava i privilegi dei suoi re cristianissimi, e la Spagna che, financo essa, si disponeva a fornir nuova prova della sua fedeltà alla Chiesa pericolante? Quel che importava era che la voce di questa libera Roma, prima di venir soffocata, suonasse alta e fiera, romana davvero. Ed ecco precipitarsi a Roma, da ogni parte d'Italia e dalle terre d'esilio, italiani a migliaia, isolati o adunati in schiere armate, risoluti tutti a sostenere una causa che, nonostante il sicuro insuccesso immediato, prometteva, se ben condotta, di render piú certo il trionfo finale delle aspirazioni italiane.
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