Piú alto di tutti e quasi sopraffatto dall'emozione che suscita in lui questa rinnovata «missione» di Roma, pur tanto sognata, giunge Mazzini. «Vi entrai la sera, a piedi, sui primi del marzo, trepido e quasi adorando», ricorderà egli stesso piú tardi. Nessuno ha quanto lui il senso religioso di Roma: non è Mazzini infatti che ha sempre veduto e additato, in Roma appunto, la culla di una nuova fede religiosa, che armonizzando le aspirazioni divine e umane, sociali e politiche, individuali e collettive dell'uomo, inizierà un'era migliore? Pauroso dunque per lui, come per tutti gli spiriti veramente grandi, l'atteso confronto di Roma: si riveleranno le sue forze pari a una prova che egli sente suprema?
Ai ciurmadori della politica, quando pervengono a Roma, par necessario, per dimostrare la propria grandezza, indossata la toga e gonfiate le gote, far monopolio delle glorie antiche, di continuo evocate e proposte nei roboanti discorsi, con la pretesa di emularle con gesta mai viste. Mazzini, entrato a Roma umilmente e quasi di soppiatto, si nasconde dapprima in una povera stanza d'albergo, in una via secondaria, «un tavolino d'abete e cinque scranne di paglia... un desinare frugale a tre paoli»: poi, nominato triumviro, bisogna bene che passi alla Consulta, ma anche lí sceglie l'alloggio piú umile, che gli permette di tenersi in continuo contatto col pubblico. Assai volentieri cede al collega Armellini gli appartamenti di rappresentanza, che pur sarebbero sua degna sede. Continua, in Roma, la sua vita d'esilio: scrive e scrive, con quei suoi segni sottili ed uguali, anima tutti col suo febbrile parlare, con i suoi occhi febbrili.
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