Non era proprio lui che andava insistendo, fin dai primi di marzo, che Roma s'avesse a difender fuori di Roma?
L'attuazione del piano seguí rapidissima e nel piú grande segreto; al punto che quando, alla sera del 16 maggio, i romani stupefatti videro, reggimento dopo reggimento, ben diecimila uomini lasciar la città per porta S. Giovanni con alla testa Roselli stesso e Garibaldi e Pisacane, lo sbigottimento fu intenso, voci di tradimento circolarono subito e mezza Assemblea si precipitò da Mazzini a chiedergli conto di quel che stesse accadendo; ci volle del bello e del buono per acquietarli un poco. La fortuna assistendo, dubbi e sospetti si tramutaron poi presto in sconfinati entusiasmi.
Il comando romano, infatti, o vogliam dire Mazzini, rivelò in questo caso straordinario tempismo. Velletri? Diversivo a uso di politica interna? Altro che questo! I napoletani, incalzati, spariron d'incanto dalla regione dei colli, non solo, ma dovettero ripassare in tutta fretta il confine. Disfatta morale aggravata dalla presenza del re in persona fra le sue truppe. È vero che Ferdinando aveva disposta la ritirata fin dal 17 di maggio — mentre i romani raggiunsero le sue posizioni soltanto il 19 —, non appena cioè gli era giunta notizia della sospensione di ostilità intervenuta tra l'Oudinot e il triunvirato e dell'immediata mobilitazione di tutte le forze romane contro di lui; ma la sua fuga, per quanto ufficialmente attribuita alla fallita intesa con Francia, non mancava per questo di costituire per lui, che il confine romano aveva baldanzosamente varcato due settimane innanzi, uno scacco bruciante e per la repubblica un clamoroso successo (che fosse poco sudato non monta).
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