A Giuseppe Montanelli che nel '49, esule in Isvizzera, andava tessendo le lodi del Piemonte costituzionale, un «eccellente repubblicano» ribatté «che la sopravvivenza dello Statuto piemontese era, a senso suo, di tutte le nostre disgrazie la maggiore, e bisognava desiderare che cadesse e cadesse presto, affinché l'Italia fosse adeguata allo stesso livello»(68). Era Pisacane costui? Il Montanelli non dice: certo, eran quelle le idee di Pisacane. Alle quali, sí, la storia ha dato torto; ma, oltre che le opposizioni giovano sempre ai governi intelligenti (e il Piemonte lo era assaissimo), è proprio impossibile oggi riconoscere che, almeno in parte, aveva ragione Pisacane e con lui i rivoluzionari intransigenti? Lasciamo andare che l'accentramento monopolistico dell'azione italiana svolto dal Piemonte impresse una obbligatoria etichetta monarchica al processo unitario; ma non è forse vero che esso nel fatto scoraggiò, e certo non sollecitò in misura adeguata la pur tanto necessaria collaborazione del popolo italiano alla propria liberazione? Il Piemonte assicurava sí la probabilità di una rapida ricostituzione d'Italia, ma questa rapidità era utile o non piuttosto minacciava di danneggiare il fondamento morale dell'unità? Probabilmente i responsabili della politica piemontese non sospettaron neanche che la progressiva piemontesizzazione delle élites italiane potesse essere indizio, oltre che di realismo politico, di alquanta timidezza e neghittosità; che la delega al Piemonte dell'azione italiana potesse equivalere insomma, nella mente di molti patriotti non piemontesi, a una specie di gravoso premio di assicurazione che conveniva pagare pur di sottrarsi ai rischi, alle fatiche, alle incertezze e lungaggini d'una genuina rivoluzione politica.
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