Troppo logico che di queste trasparentissime trame e della parte che ad esse prendeva Pisacane il governo di Torino si mostrasse per lo meno uggito. Tanto piú che coincidevano con la clamorosa campagna propagandistica iniziata dai repubblicani pel lancio del prestito mazziniano dei dieci milioni. Questa campagna non fruttava, è vero, i grandiosi proventi da costoro sperati, ma era sintomatico il numero delle piccole sottoscrizioni, attestanti la diffusa popolarità nel Piemonte monarchico del programma e dei metodi di Giuseppe Mazzini. Facile e sotto certi rapporti opportuno sarebbe stato proibir la vendita delle cartelle, ma bisognava pur differenziarsi dall'Austria che nel Lombardo Veneto s'andava coprendo d'infamia agli occhi degl'italiani comminando ed applicando pene severissime contro quanti le detenessero. A malincuore perciò il governo sardo si adattò a tollerare la manifestazione repubblicana, di che la stampa conservatrice non cessò dal maravigliarsi e muover proteste. Pisacane esultava: «Il prestito cammina a gonfie vele, i biglietti si negoziano pubblicamente...; tutti ne abbiamo presi; e gli emigrati piú poveri si associano e prendono un biglietto ogni quattro o cinque persone».(89)
Per quanto seccato dai parenti di Enrichetta (con i quali pendevano probabilmente meschine vicende d'interessi), e urtato dalle incertezze cui lo condannava «il governo di questa Cina», Pisacane a Genova si trovava benissimo: finanziariamente non c'era nulla di nuovo, ma il gran daffare politico e la vicinanza di quasi tutti i suoi amici lo mettevano in vena.
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