È assai probabile che Pisacane ricavasse non poca amarezza dall'accoglienza che la critica e il pubblico avean riservata al suo libro; e ciò non tanto perché quasi nessuno lo avesse riconosciuto per quel che dopo tutto e nonostante tutto esso era, un bel libro cioè, solidamente costruito, vigorosamente scritto, personalissimo, d'una cristallina chiarezza, e comunque assai superiore a molti altri che sullo stesso argomento avevan visto la luce («forse la miglior scrittura di guerra allora pubblicata» lo giudicò l'Oriani); ma perché, pronti tutti a pizzicarlo su qualche inesattezza, su qualche giudizio affrettato, nessuno davvero avesse mostrato d'intendere la ragione, l'idea profonda, lo scopo del libro. Con la Guerra combattuta egli si era proposto infatti di dare la dimostrazione storica della intrinseca insufficienza della rivoluzione italiana.
Molto semplice il ragionamento da lui svolto: inutile accapigliarsi sulle responsabilità del «fiasco» del '48-'49; le colpe individuali, importanti per altro verso, non spiegano nulla a questo proposito; la rivoluzione è fatalmente fallita perché, dipendendo il suo successo dall'attiva cooperazione del popolo italiano, si è dato invece che il popolo o non mostrasse alcun interesse a promuovere questo successo, o, una volta ottenutolo, a rassodarlo. Lo spunto che ha indotto alla rivolta antidispotica — il principio nazionale cioè — era sí abbastanza diffuso e popolare in Italia innanzi il '48, e diffuso vi era il disagio per la dominazione straniera e tirannica.
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