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      E invece la minoranza repubblicana seguitò a trascurare affatto nella sua propaganda il fattore sociale, seguitò — per quanto il suo organo massimo, l'Italia e Popolo, mostrasse talvolta d'intendere certe necessità nuove — a eccitare alla lotta e ai sacrifici per la patria operai e signori, preti e soldati, proletari e impiegati, tutti con un solo programma che, quando non era generico e miope al punto da non vedere un palmo piú in là dell'attimo rivoluzionario, rispecchiava naturalmente le premesse, gli interessi e le aspirazioni di un ceto ristretto di politicanti smaniosi di «dar l'assalto alla diligenza», beninteso nella convinzione sincera d'imbarcarvi poi tutti quanti. E proprio in quel torno di tempo, tutti quelli che nel campo politico non eran repubblicani arrabbiati principiarono ad ammetter la possibilità di una soluzione limitata della questione italiana che rispondesse alle sole esigenze d'indipendenza e di progressiva unificazione, rassegnandosi a relegare in sottordine e anzi abbandonando in anticipo il terzo comma fino allora considerato, la libertà cioè, e ripudiando una volta per sempre i mezzi rivoluzionari, ossia la conquista profonda di quei beni. Col delegare a un forte potere costituito (il Piemonte) la direzione tecnica e l'accollo dei lavori e i rischi del rivolgimento italiano, i patrioti rinunciavan, s'intende, a controllarne l'esecuzione e si rendeva cosí possibile di differire a cose fatte (non mai, certo, l'evitare per sempre) quell'esame delle forze di sostegno e di attrito del nuovo edificio, cui Pisacane scrittore riteneva indispensabile l'accingersi preventivamente.


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Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano
di Nello Rosselli
pagine 502

   





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