Esempi di artificioso ingigantimento del pericolo socialista non difettano davvero, anche a volersi fermare al 1849. La repubblica romana, la sua assemblea, i suoi ministri e i suoi triumviri sono senz'altro socialisti sfegatati per i fogli clerico-reazionari; taluni dei quali non esitano a dichiarare che quell'assoluta dedizione di sé alla patria in pericolo, richiesta da Mazzini ai romani, non ad altro tende che a instaurare «nella teoria e nella pratica il comunismo». Sacrosanta perciò la «crociata» francese: «La Francia che combatte contro Roma — scrive, solenne, Il Saggiatore, torinese, 15 giugno '49 — è il diritto che fa guerra al socialismo di cui il santuario di Vesta... è divenuto centro e sinagoga». Fioccano risposte furenti di quelli fra i difensori di Roma che prendono sul serio le aberrazioni dell'estrema destra: «Qui non siamo, l'ho detto sovente, né socialisti, né comunisti, né montagnardi; noi siamo italiani e repubblicani», prorompe Cernuschi nell'Assemblea romana, il 2 di luglio; e il Torre: «... noi fummo trattati da discepoli di Proudhon e di Cabet. Né ci duole che cosí la pensassero i diplomatici e gli uomini del francese governo... Ma ci stupisce assai che scrittori italiani e costituzionali non vergognassero di ripetere cosí stolte accuse».
Il fine propostosi dai clerico-reazionari con questo ricatto del comunismo, che da allora in poi è diventato d'uso frequente, era ben chiaro: dimostrare ai Principi italiani e ai loro governi che fuor del piú rigido ossequio alla volontà della Chiesa non c'era rimedio possibile alle crescenti pazze pretese dei rivoluzionari.
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