Quanti non la pretendevano a socialisti che poi, se avessero davvero veduto scatenarsi la guerra di classe, prender piede gli scioperi o anche soltanto tentarsi qualche esperimento cooperativo su larga scala avrebbero mostrato d'urgenza sotto la maschera progressista il ceffo conservatore! Bisognava bucare questa vescica, pericolosa, per le sorti della democrazia europea, la quale, disperdendosi in cerca di pretesi ideali assoluti, finiva, come sempre accade, col trascurare gli immediati urgenti doveri che le incombevano.
In due manifesti lanciati rispettivamente a nome del Comitato centrale democratico europeo (1° giugno) e del Comitato nazionale italiano (30 settembre), Mazzini s'affrettò dunque a precisare fino a qual punto socialismo e democrazia fossero termini compatibili, quale potesse essere in altre parole il programma massimo d'un democratico in terreno sociale. Riverniciate, le vecchie sue formole suonavan nuove (abolizione della miseria, eguaglianza economica e via discorrendo), ma in ultima analisi eran sempre le stesse, d'un moderato che non crede ai miracoli: piú eque relazioni fra contadini e proprietari, fra operai e capitalisti, imposta unica sul reddito, incoraggiamento alle associazioni operaie, scuola di Stato, semplificazione dell'organismo giudiziario. Chi uscisse di lí, chi predicasse sovvertimento delle condizioni sociali, adozione di sistemi violenti ed esclusivisti, tradiva la democrazia. Un'aggiunta, per gli italiani; appena compiuta la rivoluzione politica, ci si affrettasse a dar fuori provvedimenti di sollievo per le classi piú povere, che il popolo realizzasse subito «che la rivoluzione s'inizia per esso».
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