A Pisacane, che non sognava allora se non rivoluzione sociale e non vedeva intorno a sé che inique ingiustizie da vendicare («Qui, aveva scritto a un amico in febbraio, si sono date feste che hanno costato 18 000 franchi, mentre tanti muoiono di fame; sono cose che fanno venir la febbre»), a Pisacane il programma mazziniano parve naturalmente un palliativo ridicolo. Si sfogò con Dall'Ongaro: «il dire piú eque le condizioni fra contadino e proprietario, fra capitalisti e operai non ammette che due casi: o P.(ippo) crede possibile risolvere il problema sociale senza abolire la proprietà, ed allora non ha studiato a fondo la società presente; o P. parla cosí per non intimidire i proprietari, e allora simula; ciò non è da rivoluzionario... Ho studiato con assiduità (e non ho ancora terminato) tutti gli economisti e i socialisti e ti assicuro che per ottenere ciò che vuol P. non ci è mezzo termine; gli strumenti del lavoro debbono essere in comune. Perché temere di parlar chiaro, perché non fare tra le masse una propaganda di questo genere, la quale è facilissima?»
Mazzini avrebbe potuto domandare a Pisacane perché mai non la iniziasse lui, tale propaganda, se gli pareva utile. Pisacane avrebbe probabilmente risposto che nel momento era tutto assorto nell'esame teorico della questione, nella lettura di opere d'economia, di storia, di filosofia, da Vico a Pagano, da Filangieri a Galluppi, da Beccaria a Romagnosi fino a Leroux, a Blanc, a Proudhon, ma che era ben deciso, una volta ferratosi nelle sue convinzioni, a rilanciarsi nell'agone politico.
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