Ma c'era in essi perenne novità d'idee, c'era fervore, c'era l'afflato di una cultura sollecita di conservarsi aggiornata e sopranazionale; c'era una spregiudicatezza totale di principii, e, in seno al gruppo, nessuna necessità di disciplina. Chi poi contribuiva ad unirli era... Mazzini: il quale, con i suoi seguaci, serviva da bersaglio alle loro frecciate epistolari. C'era da sentirlo, ad esempio, Cattaneo, quando gli pigliavan le furie per qualche nuovo colpo inscenato da costoro! «Non s'accorgono — scriveva a Pisacane dopo "le sterili sventure di Mantova" — non s'accorgono che un intervallo di tre anni ha già mutato totalmente le cose materiali, che qualunque siffatta impresa, se potesse riescire, non sarebbe altro che una calamità. Ma essi hanno la dottrina del martirio, stolta e scellerata, e sciupano carte, che, giuocate a luogo e tempo, avrebbero potuto essere preziose... Dicono: azione e silenzio. L'azione è un assurdo, e il silenzio è un tradimento». E concludeva: «Dai professori di rivoluzione non s'intende come le rivoluzioni e le stagioni non sono al comando dell'individuo, e si pretende farle nascere a forza».
Ferrari rincarava la dose; già nell'autunno del '51 s'era dato un gran daffare per un iracondo manifesto antimazziniano del gruppo federalista; nel gennaio seguente, lamentando il colpo di Stato napoleonico, trovava ragione di conforto nel fatto che Mazzini, addossandone la colpa alla democrazia, si fosse una volta per sempre screditato agli occhi di quella; nel maggio se l'era presa col buon Mauro Macchi (che nell'Olimpo federalista rappresentava la divinità piú mite e indulgente, ma insieme di minor forza creatrice) perché, pur contrario a Mazzini, aveva osato difenderlo dalle accuse grossolane dell'abate Gioberti.
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