Nelle Due Sicilie, che il cronico malcontento dei ceti medi, la ridda dei processi politici, l'infortunio Gladstone, l'isolamento diplomatico se non proprio l'abbandono delle potenze, designavano come l'epicentro probabile d'un eventuale terremoto rivoluzionario, principiava a prender piede e a raccogliere larghe adesioni una soluzione antirivoluzionaria (seppur violenta) appoggiata, cosí pareva, a Parigi e a Torino: la restaurazione della dinastia dei Murat.
Il partito rivoluzionario si vedeva cosí minacciato nelle sue finalità dal pericolo che, ovunque in Italia, la prepotente aspirazione degl'italiani coscienti a un ordine nuovo, anziché servir di lievito a un risorgimento integrale, venisse cloroformizzata e spenta per mezzo delle cosí dette transazioni realistiche, di baratti, di pateracchi principeschi. Era la missione d'Italia che in tal modo si smarriva, era il sogno unitario che crollava forse per sempre, erano gl'italiani sottratti alla dura formativa scuola del sacrificio. Di fronte al moltiplicarsi delle iniziative dall'alto e al crescer del loro prestigio, cadeva dunque, necessariamente, ogni dissenso tra i rivoluzionari sul fare o non fare immediato; c'era il caso, se si aspettava troppo, di trovarsi un bel giorno innanzi a irrimediabili fatti compiuti, venissero questi da un Napoleone o da un Cavour o da un Murat o da un convegno di Ministri degli Esteri. Occorreva quindi reagir prontamente, precipitando uno scoppio rivoluzionario in quel Mezzogiorno che, nonostante tutto, si presentava ancora come l'unica terra italiana nella quale gli agitatori potessero riporre un filo di speranza; per fortuna la soluzione Murat non era affatto sentita in Sicilia.
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