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      Ma non c'era tempo da perdere: se alla caldaia napoletana si lasciavano applicare valvole di sicurezza Murat, la partita era definitivamente perduta.
      Di tutto ciò Mazzini si rese conto con perfetta lucidità tra il cadere del '54 e il principio del '55; fu allora che, abbandonando la speranza lungamente nutrita di suscitare la rivoluzione italiana coll'istigare i lombardi a rinnovare il conflitto con l'Austria, diramò l'ordine di concentrare il fuoco sulla Sicilia e su Napoli. I «militari di Genova», e con essi molti altri rivoluzionari piú o meno antimazziniani fin qui, che avevan sempre sconsigliato l'insurrezionismo a ripetizione nell'alta Italia, si posero senz'altro a sua disposizione.
      E cosí i successi della politica europea del Piemonte, atteggiantesi ormai a potenza rappresentativa d'Italia, e nel Piemonte stesso e in tutta Italia la crescente popolarità del partito nazionale che incondizionatamente appoggiava quella politica, e nel Mezzogiorno i progressi del murattismo, tutto ciò inquadrato in una valutazione forse eccessivamente severa delle cose italiane, resero l'unità e l'energia al movimento mazziniano; lo salvaron cioè da una bancarotta morale che nel '54, all'indomani di due gravi sconfitte (Milano '53 e Sarzana '54), appariva per molti segni e probabile e prossima. La ripresa fu infatti straordinariamente vivace; si sarebbe detto che una scarica elettrica avesse percosse le torpide membra del partito: dissidenti che rientravan nei ranghi, «tepidi» che si rianimavano, affluir di nuove reclute, e intorno al partito quell'alone di consensi, di anonimi incoraggiamenti, quel fioccar di proposte, che da tempo eran venuti a mancare, sintomi tutti della vitalità d'un movimento politico.


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Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano
di Nello Rosselli
pagine 502

   





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