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      Di Pisacane o no, questi articoli una cosa dimostrano a luce solare: quanto larga, cioè, o meglio illimitata, fosse la libertà di stampa che il governo di Torino, perfino in tempo di guerra, credeva suo debito e suo pro di liberalmente osservare.
     
      La politica è un'infida distesa di sabbie mobili: finché te ne tieni lontano, stupisci che quei che vi son capitati in mezzo non riescano a sottrarvisi piú, e gestiscano e gridino come gente invasata. Ma se per caso ti ci avventuri anche tu, presto ti accorgi che l'uscirne è pressoché impossibile: vi affondi lentissimamente, ma senza mercé.
      Pisacane v'era caduto, proprio per caso, nel '47; nel '51, riuscitogli di sollevarsi un poco, s'era illuso di poterla scampare; quattro anni piú tardi s'inabissava anche piú irrimediabilmente di prima. Qualche lettera a Mazzini, quei pochi articoli sull'Italia e Popolo, nient'altro di concreto aveva fin'allora concesso alla politica attiva; ma era il piede dell'insabbiato, era il rovesciamento totale delle sue posizioni, era la fine del periodo di pace operosa, era l'addio al ritiro di Albaro. Lo aveva tradito, ancora una volta, la tempra esuberante e impulsiva: quando mai gli era riuscito di far le cose a mezzo? Distrattosi, rotto l'incantesimo, non trovò piú il verso, per voglioso che fosse, d'inchiodarsi al suo tavolo, al lavoro paziente di tutti i giorni. Giunto dopo anni di dispersione a realizzare che doveva pur qualcosa, oltre che al genere umano, alla famiglia e a sé, avviatosi appena sulla via banale d'una occupazione fissa e retribuita, ecco che retrocedeva d'un tratto, per ricadere nei generosi eccessi di ieri.


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Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano
di Nello Rosselli
pagine 502

   





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