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Capitolo nonoQuestione borbonica
Per taluni suoi avversari politici Mazzini era, si sa, una specie d'Iddio onnipossente e maligno che, ingelositosi delle fortune italiane, si fosse fitto in capo, per mala sorte nostra, di contrastarle e spegnerle con ogni sua forza e dovunque. Disfattista a Milano nel '48, pericoloso estremista a Roma nel '49, e poi carnefice della migliore gioventú, complice de' governi tirannici con quel suo continuo offrir loro nuovi motivi di repressioni violente, diffamator del Piemonte «palladio delle libertà italiane», vergogna dell'Italia all'estero. Tutte le colpe eran sue.
Vollero adesso costoro che il murattismo, del quale egli andava parlando come d'un grave imminente pericolo, non fosse che una bolla di sapone da lui sapientemente gonfiata per giustificare il suo intervento nelle cose di Napoli e per riattirare al suo giuoco molti emigrati meridionali che da un pezzo ne avevano abbastanza di lui.(175) Chi mai, da Mazzini in fuori, prendeva sul serio in Italia la fola Murat?
L'odio di parte annebbiava loro la vista: fola, sí, ridevole per giunta, era stato il murattismo fin quando Napoleone non s'era fatto padrone di Francia; da allora in poi, stabilitosi il pretendente ufficioso (Luciano) a Torino qual Ministro francese e poi salito ai sommi gradi massonici, s'era mutato in un pericolo vero.(176) Luciano infatti si era subito messo attivamente al lavoro, stabilendo contatti sempre piú numerosi nell'ambiente degli emigrati napoletani, sfruttando abilmente il rimpianto che i piú vecchi tra loro nutrivano per re Gioacchino: impareggiabile nell'arte di dire e non dire, attento a non compromettersi troppo, Luciano era insinuante nelle lusinghe, largo nelle promesse, regale addirittura nell'assumere impegni politici; il suo regime, se mai si fondasse, sarebbe schiettamente costituzionale, egli si porrebbe deciso alleato del Piemonte nella crociata antiaustriaca, godrebbe l'amicizia, non mai la tutela di Francia.
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