Preparazione rivoluzionaria, azione diretta, cosa significavano queste solenni parole, senza dubbio pronunciate e scritte in piena buona fede? Su quali dati poggiavano? In qual misura esprimevano il pensiero di quel manipolo d'uomini che sparsi nelle varie provincie rappresentavano lo strumento della rivoluzione da farsi? Fino a qual punto tenevano conto del naturale scarto che esiste sempre tra le intenzioni piú generose e la loro attuazione? In base a quale criterio chi usava quelle parole valutava le forze di resistenza del regime che si voleva rovesciare?
Tutto ciò era assai poco chiaro, e v'eran ben poche idee concrete nella mente di Giuseppe Fanelli (un giovanotto sui venticinque anni, che nel '48 e nel '49 aveva brillantemente assolto il dover suo battendosi in Lombardia e alla difesa di Roma),(187) quando, per incarico del Comitato, egli comunicò ai dirigenti il movimento mazziniano l'intenzione dei rivoluzionari napoletani di dar fuoco alle polveri, e chiese loro appoggio di consigli e di mezzi. Il Comitato voleva far qualcosa atto a «svegliare» il popolo, pensava a una serie di grossi colpi terroristici e insurrezionali, che non dessero tregua al governo e suscitassero sempre piú viva l'impressione in Europa che alle falde del Vesuvio mugghiasse un tremendo vulcano morale. Proposte generiche, tutte. Una sola concreta: quella appunto d'una spedizione armata che avesse per scopo di liberare un gruppo di prigionieri politici per poi sbarcarli, armati, in un punto designato della costa napoletana, a iniziar la rivoluzione.
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