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Il programma era volutamente generico o almeno pretendeva di esserlo: «Noi vogliamo la nostra patria grande e felice. Vogliamo dunque la rivoluzione, altro mezzo non vi ha. Rivendicarsi in libertą per acquistare l'indipendenza e quindi costituire la grande unitą italica č l'esplicamento naturale di questa maestosa e terribile forza che deve dare alla patria figura ed essere di nazione. Qual italiano potrebbe rifiutare il suo concorso? Questa della rivoluzione č bandiera unificatrice. Possono schierarsi sotto con tranquilla coscienza tutti i patriotti... Si combatta e si vinca. Al giorno del trionfo le discussioni sull'assetto politico... Fedeli al principio della conciliazione dei partiti sul terreno comune della rivoluzione, vigorosamente combatteremo le pretensioni di monopolio dinastico che qua e lą potessero scaturire a danno e vergogna nostra...»
Che era come dire: vedete, non parliam di repubblica; sia chiaro perņ che di monarchia non ne vogliam sapere...
Il punto di vista rivoluzionario veniva energicamente ribadito in un secondo articolo (Dove siamo? che faremo?) di evidente paternitą pisacaniana, concluso a mo' di un ordine del giorno:
«Considerando che la rivoluzione italiana č generalmente riconosciuta probabile e vicina; che la diplomazia non crea i fatti, ma li sancisce; che nello stesso tempo in cui teme lo scoppio d'un moto italiano, e si ingegna allontanarlo con ripiego di riforme, č pur pronta a transigere coi fatti compiuti; che il Piemonte č vincolato alla diplomazia per antichi e recenti trattati; che č quindi contro ogni verosimiglianza poter giammai la monarchia sarda iniziare l'insurrezione italiana, inimicandosi cosķ tutti i governi d'Europa ed esponendosi ai pericoli d'una rivoluzione.
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