«In due ore — attestò Mazzini nei Ricordi — ei decise; fece tutti i preparativi opportuni, abbracciò la donna del suo cuore, che si mostrò in tutto degna di lui, e partí. Era determinazione per lui piú grave dell'altra; era l'esporsi a tortura e a morte solitaria, senza difesa, non coll'armi in pugno e lottando. E nondimeno, chi lo vide in quelle ore avrebbe detto ch'ei s'avviava a diporto». Aveva infatti nel cuore una pace profonda: se la spedizione forzatamente mancava, non lui mancava; se il rinvio avesse malauguratamente prodotto, laggiú, una catastrofe, era ben giusto che travolgesse lui pel primo. Ma una voce interiore, ottimista, gli diceva che col suo arrivo a Napoli tutto si sarebbe appianato e il tentativo, a breve scadenza, si sarebbe potuto ripetere; chi sa mai, fors'anche gli si sarebbe rivelata la possibilità di una iniziativa immediata nella capitale; e in quel caso, nessun rinvio (pericoloso sempre) dei moti di Genova e Livorno.
Degno di Mazzini — che, vinto il primo smarrimento, era già pronto a ricominciare tutto da capo — Pisacane assicurava un amico che «accostumati ormai alle disgrazie ed alle delusioni, esse non ci scoraggiano — ma con maggiore pertinacia ci legano all'impresa».
Munito d'un passaporto falso, inosservato dalla polizia, s'affrettò dunque sull'Aventino in partenza.(272) Il viaggio fu turbato da continue apprensioni; ancora da Civitavecchia, dove il postale faceva scalo, egli scriveva a Fabrizi: «se ci sarà fallimento non voglio rimproverarmi né debolezza, né mancanza di energia; ma soccombere con la coscienza degna di me e de' miei amici». Forse travestito, sbarcò incolume a Napoli, venerdí dodici giugno; si precipitò da Fanelli.
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