E nemmeno egli s'illude, col suo «colpo», di doventare «il salvatore della patria»: no, non altra missione egli rivendica a sé che quella di propagar la scintilla. «Giunto al luogo dello sbarco... per me è la vittoria, dovessi anche perire sul patibolo». Ma come è pessimista, «disincantato», remoto le mille miglia dal misticismo del Dio e Popolo, questo eroe mazziniano! «La propaganda dell'idea — scrive nel Testamento — è una chimera,... l'educazione del popolo è un assurdo. Le idee risultano dai fatti, non questi da quelle... se non riesco, dispregio profondamente l'ignobile volgo che mi condanna, ed apprezzo poco il suo plauso in caso di riuscita». Quando mai un gesto cosí profondamente idealistico come quello di Sapri fu preparato con maggiore freddezza e con meno illusioni?
In conclusione: è, questo Pisacane ultimo, un transfuga del socialismo, un disperato, un vinto?
Io non lo penso. Penso invece che il Testamento, vergato con mano febbrile, sia l'espressione di una profonda crisi interiore in pieno sviluppo; penso che esso avrebbe preluso, ove l'autore fosse sopravvissuto a Sapri, a una profonda revisione della sua concezione sociale e politica (cristallizzata nei Saggi) e propriamente nel senso, piú sopra adombrato, volontaristico. Di questa crisi, è vero, il Testamento non offre che incerte indicazioni; ma si confronti, in esso, la freddezza dogmatica con la quale son ripetute le formole socialiste ricavate tal quali dai Saggi, combattivo calore che anima i successivi passaggi sull'azione politica riservata a una minoranza decisa; si rifletta all'«ignobile volgo». Tutto si spiega, e le contradizioni s'intendono, se appunto si ammetta che Pisacane stia evolvendo in quest'ora (verosimilmente sotto l'influenza e l'esempio del piú volontaristico tra i grandi lottatori politici, Mazzini) verso un socialismo rivoluzionario antideterministico per eccellenza, fondato sull'azione diretta, e anzi sulla violenza esercitata nel nome e nell'interesse del popolo da una ristretta élite ardita e dinamica: socialismo d'un uomo d'azione che, avendo ricavato dall'esame scientifico della costituzione sociale la convinzione della fatalità economica della rivoluzione proletaria, intende poi come il processo vada sollecitato e moralizzato dall'azione sovvertitrice, se non del proletariato medesimo, dei suoi interpreti e rappresentanti.
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